Almamegretta: Animamigrante

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Data: marzo 1994
Giornale: Mucchio Selvaggio
di Daniela Amenta

Piove che dio la manda quando a Roma incontro Rais e Gennaro, rispettivamente voce e batteria degli Almamegretta. Il cameriere del bar, zona Rai, ci guarda sospettoso mentre chiacchieriamo di ritmi del non lavoro e di “figli di Annibale”. Ha ragione, il cameriere. Come gadget dell'incontro mi trovo casualmente in tasca un simpatico posacenere. Lascio gli Alma in pasto ad altri colleghi. Dopo un pomeriggio trascorso fra vetri molati e divanetti azzurri mi auguro che nei loro zainetti sia apparsa, come per magia, almeno una teiera di quelle che avevamo adocchiato.



Dove migra l'anima degli Almamegretta? A me è sembrato che, per quanto fluida e mercuriale, abbia radici ben piantate nel Sud. È così?
Sì, certo. Ed evidentemente la coordinata geografica non è riferita solo al Sud d'Italia. Piuttosto volevamo cantare tutti i Sud del mondo o anche quelle aree che anche se in termini territoriali si trovano nel Nord, di fatto vengono percepite, vissute e trattate come “in basso”. Pensiamo ad esempio all'ex Jugoslavia, all'ex Unione Sovietica. Luoghi dimenticati, negati. Noi partiamo da Napoli, che è la nostra città, e quindi da un tipo di sonorità importate, ma molto presenti, che sono di stampo afro-americano e afro-caraibico. Verificato questo patrimonio, abbiamo cercato di mescolarlo con le melodie fabbricate in casa, quelle che sono scritte nel nostro codice genetico. Siamo partiti da Napoli ma ci interessa arrivare ovunque. Anima migrante a tutto tondo, insomma.
Vi pesa essere di Napoli? Voglio dire: pesa questo folklore da cartolina che sembra inevitabile citare quando si parla di Napoli? Se non è la pizza sono i rinnovati mandolini “arboriani”, se non è il Golfo sono i vicoli di De Crescenzo, se non è Pulcinella sono i cassaintegrati dell'Italsider. Qualsiasi argomento, in pratica, è come deformato da una lente che trasforma la realtà in una formula metafisica...
Non ci pesa Napoli. Ci pesa l'operazione con cui i media, certi “intellettuali” e i politici, la spacciano. È una città caotica, confusa, contraddittoria ma noi ci muoviamo bene. Forse perché è la metropoli meno omologata che esiste. La retorica, gli stereotipi che l'accompagnano fanno parte del gioco. Tant'è che c'è ancora gente che canta “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato” e alla faccia nostra e dei nostri ragionamenti vende seicentomila copie. Con che coraggio è, comunque, un mistero.
Parliamo di radici. Su Anima migrante e Curre curre guagliò voi e la 99 Posse avete coinvolto il Gruppo Operaio ’E Zezi di Pomigliano d'Arco che negli anni ’70 ha avuto un peso notevolissimo nel ridefinire i suoni e i contenuti del folk. Una grande orchestra popolare che ora i gruppi partenopei stanno finalmente riscoprendo. Io credo che se da una parte, per questioni generazionali e di cultura internazionalista, sia giusto citare come fonte di influenza - che so - Adrian Sherwood, dall'altra non si debba e non si possa trascurare il proprio humus.
Siamo d'accordo. E siamo felici che il Gruppo stia riprendendo quota. A un certo punto avevano deciso di occuparsi solo di teatro. Una scelta dettata dall'aria irrespirabile degli anni ’80 che ha cercato di spazzare via qualsiasi cosa avesse a che fare con la canzone politica. Ora il Gruppo ha ripreso l’attività in maniera molto diffusa, esibendosi spesso, lavorando tanto e in tante situazioni. Tra breve dovrebbe anche uscire un loro disco dove Rais canta una canzone e dove è presente anche la 99 Posse. Lo scambio continua. La collaborazione è nata quando, dopo un concerto, li abbiamo invitati a suonare con noi una tammurriata che utilizza, del tutto istintivamente, certi canoni ritmici propri del reggae. Con il Gruppo siamo stati in Francia. Loro, dal vivo, hanno un impatto incredibile. A Nantes c'era tutta la gente che ballava, batteva le mani, si divertiva da matti. Hanno avuto più successo degli U2...
Un’altra caratteristica di questo scorcio degli anni ’90 e dell’anno passato in particolare, mi sembra che siano le relazioni e i rapporti collaborativi che i gruppi hanno cominciato a instaurare tra loro. Finalmente si vincono, seppur tra scazzi e litigate, gli orticelli personali, l’antagonismo da guerra tra poveri. Insomma, nel rispetto delle differenze, si cerca di esprimere un atteggiamento collettivistico e, dunque, politico.
Ci sta bene confrontarci ma, come dicevi tu, nel rispetto delle differenze. In questo momento a Napoli sono in atto una serie di rapporti tra noi, Bisca, 99 Posse, Daniele Sepe e il Gruppo ’E Zezi. Vanno bene le commistioni sonore, vanno bene le commistioni anche sul piano dei rapporti personali oltre che dal punto di vista artistico. Quello che ci sta meno bene è la logica dell'ammucchiata, del “siamo fratelli” a tutti i costi. Anche perché è vero che si sta superando l'orticello personale ma si rischia, a volte, di creare tanti orticelli, un grande appezzamento di terra in nome sì di un progetto politico ma che, è bene ricordare, può avere sfumature molto diverse. Ognuno di noi ha la sua storia e certi percorsi, sia indietro che avanti, sono giustamente differenti. Gli Almamegretta non rappresentano nient’altro che se stessi. Non vorremmo essere confusi con la voce, o una delle voci, della Napoli “altra” che, per quel che ci riguarda, è stereotipata e finta come quella della pizza, di San Gennaro e del Vesuvio.
Figli d’Annibale è un grande inno a favore proprio della diversità...
Sì, noi almeno lo abbiamo pensato così. Come una provocazione. Bisogna essere “figli d'Annibale” culturalmente. L'unica vera chance del futuro pensiamo che sia proprio il meticciato culturale. Tutte le società occidentali sono investite da persone in carne ed ossa che arrivano con il loro carico di sofferenza e oppressione. È qui, nel confronto con questa gente che viene dall'Africa, dall'Asia, che si gioca la scommessa di un nuovo domani.
Meticciato culturale che negli Alma è presente anche dal punto di vista squisitamente sonoro, oltre che nelle liriche. Prendiamo il dub, per esempio...
Ecco. Il dub è fondamentalmente la nostra risposta ai ritmi ansiogeni della produzione, del sistema, della fabbrica sociale e delle sue scansioni temporali, del “consuma, produci, crepa”. Laddove manca il tempo, nasce la nostra esigenza di dilatarlo a dismisura. Durante i nostri concerti, la parola d’ordine e scalare le marce, fare in modo che ogni istante duri di più di quanto dura in realtà. Per noi il dub è la musica del non lavoro, è l'arte che rompe il processo della produzione.
Un concetto molto interessante questo. Penso che esista una sloganistica anche ritmica, anche sonora. È evidente che in una situazione come un concerto, sia più facile rapportarsi col pubblico, stabilire un feedback immediato usando il solito basso che pompa o la batteria in un certo modo. Chi fa musica lo sa. Più difficile è, come dite voi, scalare le marce oppure proporsi, in una situazione di danze scatenate tipo il tour di “A sud di nessun nord”, in versione acustica come la Gang che rallentando i ritmi ha voluto privilegiare la comunicazione verbale, piuttosto che quella fisica.
La battuta lenta ti permette di muoverti, di danzare, di sentire il tuo corpo che oscilla, che vibra. Di fare cioè tutto quello che non fai quando lavori, quando sei costretto a produrre a 2000 all'ora. Verso la fine dei nostri concerti realizziamo un canovaccio dub in cui il ritmo c'è ma è ridotto all'osso e in cui Rais parla alla gente. L'importante è distorcere il tempo. Una cosa che faceva anche il punk, anche se in termini diametralmente opposti al dub.
Anima migrante è un disco che usa macchine e campionatori. Eppure suona primitivo, corporeo, talmente “viscerale” da sembrare arcaico.
Questo sì che è un complimento. Il nostro obiettivo era quello di usare la tecnologia, anche quella più avanzata in modo massiccio, e contemporaneamente tentare di conservare quella che è la radice primordiale del suono. Volevamo creare qualcosa che suonasse antico ma con mezzi moderni. Prima tu hai citato Adrian Sherwood. Ecco... gli Almamegretta vorrebbero, nel loro piccolo, ricreare le atmosfere della On-U-Sound. Tu ascolti un disco di questa etichetta e non ci capisci un cazzo, non sai se stanno suonando veramente oppure se invece manovrano le macchine. E ti perdi. Dentro ti esplodono sensazioni stranissime...
C’è questo uso iterattivo dei suoni, quasi ipnotico. Pensate agli African Head Charge. Sembra musica sciamanica. Oppure l’ambient-dub di Laswell o certa dance tipo gli Orb...
Ma allora stiamo sulla stessa lunghezza d'onda... Proprio questo stavamo per dire. Prendi la scansione della classica cassa house a quattro. Quella è una dimensione ipnotica. Certo, poi devi stare attento a come una cosa del genere viene usata...
Gli inglesi definiscono “chill-out” un gruppo come gli Orb...
E ci piacerebbe che di noi si parlasse così. Di un gruppo “after-rave”, per rilassarsi, stare tranquilli, ricominciare a sentire il cuore che batte col ritmo giusto.
La scelta di un produttore come Ben Young è stata funzionale in tal senso.
Sì, lui ha collaborato con la On-U-Sound e con gli African Head Charge ma sostanzialmente è un produttore indipendente. Certo è che nel futuro ci piacerebbe lavorare direttamente con Sherwood che per noi è un faro. Come il Gruppo 'E Zezi, d'altraparte...

Aggiornato Sabato, 30 Luglio 2005
Ultimo aggiornamento ( Martedì 28 Luglio 2020 11:24 )